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La storia della mia depresisone: parte 3

Stasera è una di quelle sere in cui mi sembra di aver fatto un salto indietro, ad occhi chiusi, nel buio. Ho così tanti pensieri in testa che non riesco a focalizzarmi nemmeno su uno, rimbalzano nel mio cranio (e di spazio per rimbalzare ne hanno), mi sento agitata e poi vuota e poi triste, in loop.
Speravo che uscire con Mr Batterino mi aiutasse, invece ho solo appesantito anche lui con il mio umore insopportabile.
Quindi stasera andiamo avanti col racconto della mia depressione.

Anche qui, mi sembra doveroso fare un salto temporale indietro. Prima di andare dalla psicologa ho sofferto di insonnia, un’insonnia devastante. Mi capitava di non dormire per più notti di fila, il che mi portava ad essere uno zombie instabile e incapace di fare qualunque cosa. Davo un esame ogni due sessioni perché non riuscivo a concentrarmi su niente, figuriamoci memorizzare qualcosa.
Di notte non dormivo, e quando mi addormentavo mi svegliavo di soprassalto con la sensione terrificante di star soffocando; mi risvegliavo come nei film horror con la bocca spalancata per risucchiare aria, perché non ne avevo letteralmente più.
In due anni ho visto così tanti dottori, e ognuno mi diceva una cosa diversa: epilessia, problemi respiratori, anomalie polmonari, schiribizzi a livello cerebrale… Ogni volta era una cosa diversa e piuttosto spaventosa.
I miei genitori non sapevano più cosa fare.

Alla fine mi hanno ricoverata per dieci giorni al San Raffaele a Milano, e mi hanno rivoltata come un calzino: avevo elettrodi attaccati ovunque (ci ho messo settimane a rimuovere completamente il collante dai miei capelli, ancora penso di averne un po’), monitoravano un po’ tutto quello che mi succedeva.
Finalmente ci abbiamo capito qualcosa: soffro di apnee notturne, il che causava i miei risvegli traumatici e senza fiato durante la notte.
In più il mio piccolissimo cervelletto bislacco non va in fase rem, mai, motivo per cui devo prendere una pastiglia usata per chi soffre di epilessia, serve a tenere sotto controllo le scariche elettriche che turbano le mie notti e che mi impedivano di addormentarmi e riposare in maniera decente.

Insomma, stavo nammerda ragazzi, un rottame pronto per la demolizione.
Tutto ciò ha portato al resto, ovvero il mio viaggio nei meandri della disperazione con quella che Winston Churchill chiamava “il cane nero”, ovvero la depressione.

A distanza di anni mi rendo conto che tutto questo travaglio ha ancora delle ripercussioni su di me, e che quel periodo di assoluta inattività durata parecchi anni mi peserà per sempre.
Mi mancano ancora cinque esami all’università, sto cercando finalmente lavoro, ma tutto quel tempo perso in questo momento mi sembra una voragine che mi rovinerà la vita per sempre.
Mi sento un peso per tutti, Mr Batterino in primis. Come può pensare di costruire una storia seria con una persona come me, con i miei sbalzi di umore, il mio passato burrascoso, la mia assoluta inettitudine economica? Chi glielo fa fare di imbarcarsi davvero in una situazione con una persona di ventisette anni che non ha un centesimo e si sente persa? 

Stasera, miei cari Spelacchiati, va così. Perdonatemi, ogni tanto mi parte il neurone pazzo. 
Hasta la pasta

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La storia della mia depressione pt.2

Buonasera miei cari Spelacchiati. Come state?
Io sto letteralmente ululando dal ridere pensando e ripensando a Morgan che ha pubblicato la versione estesa di “Le brutte intenzioni” e la parte in cui dice testualmente “tu sei cattivo e sembri Mortimer” che mi fa rotolare dalle risate ogni singola volta che lo ascolto.
Come vi avevo già detto non mi aspettavo così tanta comprensione, empatia e così tante risposte alla mia esperienza con la depressione, mi avete davvero riempita di orgoglio spelacchiato e vi assicuro che quando qualcosa mi turba torno subito a leggere i vostri commenti che mi aiutano assai.
Ora andiamo avanti con la seconda parte di quello strano, inquietante periodo della mia vita.

La prima psicologa da cui sono andata era giovane, aveva uno studio asimmetrico e alla parete c’era appeso il quadro di un mare in tempesta; me lo ricordo perché fissavo quello durante le sedute, tutto il tempo. Da mesi non riuscivo a sostenere lo sguardo di nessuno, perché quando mi sentivo osservata il mio cervello andava in tilt, partivano i pensieri ossessivi: “sta guardando lo spazio tra i miei denti” “dev’essere disgustato dal mio naso troppo grosso” “si sarà accorto che ho le occhiaie, le labbra spaccate, la pancia gonfia, le cosce grosse. Sarà infastidito dalla mia voce, da quello che dico. Ora mi starà odiando, e se non mi odia è solo perché gli faccio pena. Voglio andarmene.

Mi sentivo rivoltante e non capivo come la gente riuscisse a sopportare la mia presenza.
Non soltanto mi percepivo fisicamente orribile ma stavo diventando anche una compagnia lagnosa e pesante, quando non ero taciturna e quindi una specie di enorme sasso da portarsi dietro.
Vivevo con la convinzione che i miei amici mi chiedessero di uscire perché facevo loro pena; pensavo che i ragazzi mi offrissero da bere per scommessa. Se qualcuno rideva, davo per scontato stesse ridendo di me.
Mi odiavo da morire.
Mi ricordo che al locale dove andavo di solito c’è uno specchio che occupa un’intera parete e io gli davo sempre le spalle; quando capitava per sbaglio di guardarmi riflessa il mio stomaco si attorcigliava in maniera dolorosa e ammutolivo.
Come fanno a guardarmi?
Voglio smettere di guardarmi

La prima psicologa, dicevo, era giovane e strana. L’avevo scelta completamente a caso, optando per lei solo perché nell’immagine su internet aveva un golden retriever in braccio.
Non mi trovavo bene, con lei; quando le raccontavo come mi sentissi lei si sperticava in espressioni di esagerato dispiacere e mi ascoltava annuendo con aria comprensiva, ma mi sembrava falsa e che fosse
accondiscendente; mi compativa, ma io non volevo compassione, volevo che mi desse una formula magica per smettere di essere pazza. “Scusa, oggi sono particolarmente pazza” era il mio modo di comunicare ai miei amici che quel giorno stavo particolarmente male.

Dopo un mese e mezzo di sedute questa psicologa mi ha fatto una diagnosi spaventosa: bipolarismo. Mi ha scritto qualcosa su un foglietto dicendomi di andare da un suo collega psichiatra che mi avrebbe prescritto il litio.
Spelacchiati miei, non starò qui a dilungarmi su cosa sia il bipolarismo e quanto male possa fare il litio ad un essere umano perché non voglio dirvi cose sbagliate.
Io, comunque, non mi sentivo bipolare. Che poi forse è quello che direbbe ogni bipolare. Però io non avevo episodi di mania ma soltanto di quella che ancora non chiamavo depressione.

Quindi me ne sono sbattuta le natiche del suo biglietto, ho cancellato il suo numero e mi sono rivolta ad uno psichiatra stavolta basandomi sulle stelline di fianco al suo nome.

La scelta migliore della mia vita, probabilmente.

Durante la visita neurologica con lo psichiatra mi sono accorta di non riuscire a fare cose basilari come toccarmi il ginocchio e poi il naso o stare in equilibrio per più di qualche secondo.
La visita è durata poco ma lui mi ha invitata dirgli tutto: ogni cosa, anche quella che mi pareva più insignificante, di come stessi.
E quindi gli spiegai degli attacchi di panico, della repulsione verso me stessa, della fatica, della spossatezza, dei pianti isterici, dell’isolamento, dell’insonnia, del fatto che in alcuni periodi mangiassi tantissimo e in altri pochissimo, dell’irritabilità, del non sentirmi nel mio corpo e una marea di altre cose.

Mi ha prescritto degli antidepressivi, dei farmaci per dormire e della benzodiazepina da prendere durante gli attacchi di panico particolarmente forti, quelli in cui mi si bloccava la lingua in bocca e mi sembrava che mi stesse per esplodere il braccio. In realtà l’avrò preso tre o quattro volte perché avevo paura di assuefarmene. E poi mi sembrava di meritarmi gli attacchi di panico, quindi volevo viverli. Mi sembrava un modo di espiare una colpa.
Alla fine lo psichiatra ha decretato “Non sei bipolare, Sara. Soffri di depressione.”

Mi sentivo ancora più sbagliata. Non era giusto che io stessi così, che io, ragazza privilegiata sotto ogni punto di vista, fossi depressa. 

Credo che sia una cosa normale sentirsi così e lui fosse abituato perché a grandi linee mi ha spiegato che se in quel momento avessimo analizzato il mio encefalo e lo avessimo confrontato con quello di una persona non depressa avremmo visto differenze notevoli. Avevo recettori estremamente inibiti, che mi portavano a sentire tutto molto lontano da me; non producevo abbastanza serotonina e di conseguenza altri enzimi fondamentali.

“Non diresti a una persona col diabete che è colpa sua e di non curarsi. Non colpevolizzeresti qualcuno che si è rotto una gamba o ha una polmonite. Tu hai una malattia: una malattia vera e propria, pericolosa, che non hai scelto tu di avere e che non ti sei in alcun modo procurata.”
Non ero molto convinta.
Mi ha dato il numero di quella che è tutt’ora la mia psicologa, colei che grazie alla terapia mi ha fatta uscire da quella fossa di fango in cui mi sentivo impantanata… ma di lei parlerò nella prossima parte.

Intanto le persone intorno a me non si accorgevano del mio malessere, e quei pochi che se ne accorgevano non lo capivano.

Molte di queste persone hanno detto cose di cui ora si sono dimenticate.
Io non mi dimentico.

Non porto rancore, lo so che non potevano comprendere, però le loro parole hanno fatto male.
“Sara, sei troppo negativa, su con la vita!” “E’ che non ti impegni abbastanza” “Dovresti solo fare un po’ di sport” “Guarda che tutti abbiamo dei problemi, se facessimo come te…” “perché sei così debole?” “il tuo unico problema è che non sei abbastanza forte e decisa” “non hai volontà di cambiare le cose, devi metterti tu in testa che stai bene” “tu non ti sforzi neanche un po’” “ma perché non ti dai una svegliata?” “guarda che non puoi passare la tua vita così eh” “e quelli che muoiono di fame o si spaccano la schiena a lavoro cosa dovrebbero dire?”.

La verità è che io mi sforzavo tantissimo. Mi sforzavo di non cedere a quella parte di me che quando ero sulla banchina ad aspettare il treno mi diceva di buttarmi sui binari. Mi sforzavo di non chiedermi, di notte quando non riuscivo a dormire, quale coltello nel cassetto in cucina avrebbe scivolato meglio sulla mia pelle. Mi sforzavo di non trovare in qualche modo salvifica l’idea di, semplicemente, non esistere più.
Mi sforzavo di tirarmi su al mattino, di rivolgere la parola alle persone, di ascoltare quello che avevano da dirmi. Non stavo muovendo le montagne, ma tutto ciò mi toglieva quel poco di energia che avevo.
Con molti amici ho smesso di parlare e di uscire. Non ce la facevo e loro non avevano voglia di star dietro a una persona così problematica. Non biasimo nessuno di loro: non rispondevo ai messaggi, evitavo le chiamate, davo buca alle uscite quindi starmi dietro era impegnativo.
L’unica persona che vedevo costantemente era quell’uomo che continuava ad occupare gran parte dei miei pensieri e che l’avrebbe fatto ancora per parecchio tempo.

Fine seconda parte

Allora ragazzuoli miei, grazie per essere arrivati fino a qui, siete eroici. Ho sempre abbastanza ansia di risultare noiosa/patetica/troppo prolissa, quindi se avete critiche non siate timidi. Per il resto avete carta bianca nei commenti, adoro vedervi così attivi e partecipi, siete gli Spelacchiati migliori del mondo!
Con tantissimo affetto spelacchiato
Hasta la pasta!

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La storia della mia depressione, parte 1

Buongiorno miei adorati Spelacchiati, come state?
Oggi vorrei fare un post diverso dal solito imbecille a cui vi sto abituando con la mia idiozia.
Oggi vorrei iniziare un racconto serio della mia depressione. Non so perché, forse sto cercando di capire come raccontarla a Mr Batterista, forse le sedute con la psicologa stanno andando bene e voglio guardare da dove sono partita. Forse spero che anche soltanto una persona leggendo queste righe possa sentirsi vagamente meno isolata.
Insomma regà, oggi peso. Vi chiedo già scusa, e se non avrete voglia di leggere avete tutta la mia spelacchiatissima comprensione.

Cominciamo?
Via.

Non so bene quando sia cominciata questa cosa. Questa sensazione spossante di stanchezza, di noia, di non voler far niente. Può essere che sia stata sempre così, fin da bambina, una specie di tratto caratteriale bislacco che poi si è evoluto in qualcosa di decisamente problematico.
Credo di aver cominciato ad avere un problema all’ultimo anno di liceo: ero sempre stata una studentessa bravissima -matematica a parte, facevo, faccio e farò per sempre cagare coi numeri- e all’improvviso ero svogliata e sbuffavo quando i professori mi chiamavano. Dormivo poco e male, prendevo voti più bassi e stavo spesso a casa.
Poi è iniziata l’università, io dormivo sempre peggio tanto da passare notti di fila insonni; una volta è venuta la guardia medica a darmi una specie di sedativo, non ricordo bene, perché avevo tremori incontrollabili e mi sembrava mi si stesse spaccando il cranietto dal mal di testa. Non dormivo da più di 50 ore.

Piangevo ovunque. Appena ero da sola scoppiavo in lacrime. Sul treno per tornare a casa, in bagno quando mi ci rifugiavo durante le cene, di notte nel mio letto. Con gli altri cercavo di dare una parvenza di normalità, anche se non ero più la persona solare di sempre.

Passano i mesi e gli anni, e io mi ripetevo che era una fase, un “momemento no”.
Solo che era molto peggio di un momento no.
Era come se tutte le emozioni positive le sentissi molto attenuate, come se a viverle fosse un’altra persona, mentre quelle negative mi travolgevano con intensità moltiplicata per dieci. Insomma, ‘nammerda.
Mi capitava quello che si chiama “depersonalizzazione” o “derealizzazione”: mi sentivo fuori dal mio corpo. Non ero io a vivere le situazioni, era come guardare un film. Un film tra l’altro particolarmente noioso, e io ero sempre sul punto di addormentarmi; mi sentivo in un limbo strano, molto distante da tutto.
“Ma queste persone stanno parlando con me? mi hanno chiesto qualcosa? Non mi ricordo cos’ho fatto dieci minuti fa. Dov’ero ieri a pranzo?”.
E’ una sensazione quasi inspiegabile a parole, me ne rendo conto.
Non ero più io, ero un fantoccio che si muoveva e respirava per inerzia.
Pensavo che avrei vissuto così per sempre, senza sentire niente se non angoscia e disperazione.
Credo che disperazione sia la parola che nei primi mesi ho usato più spesso durante le sedute con la psicologa.

In tutto ciò l’estate di quattro anni fa ho deciso di andare a fare una vacanza studio, un mese e mezzo in Germania. Volevo lasciare tutto indietro, pensavo che una scossa mi avrebbe aiutata. Sapete, tutta quella roba del “rimani in movimento bla bla bla”, ma vaffanculo. Volevo solo dormire tutto il giorno. Volevo stare sdraiata per terra a fissare il soffitto, ed effettivamente era quello che facevo la maggior parte del tempo.
Il viaggio in Germania comunque mi ha fatto peggio: lì ho avuto la prima crisi suicida vera e propria. Non ho provato a togliermi la vita, ma c’è stato un momento in cui l’idea è stata spaventosamente concreta, non più una vaga ipotesi che turbinava qua e là nel mio piccolo, chiaramente bacato cervelletto sottosviluppato.

La cosa più assurda della mia storia credo sia questa: la prima persona che si è accorta di come stavo è stata il professore del corso di tedesco lì a Friburgo.
Mi vedeva ogni giorno per quattro ore al giorno, pochissimo tempo rispetto ai miei amici e parenti, eppure dopo due settimane siamo andati tutti quanti a bere una birra in un posto con una vista spettacolare; ero in coda per prendermi una birra quando il professore mi ha fatto cenno di avvicinarmi.
Abbiamo parlato. Mi ha spiazzata. Con lui non avevo mai parlato di niente, soltanto le frasi esemplificative a lezione, eppure aveva captato qualcosa.
Dal nulla ci siamo isolati a un tavolo e mi ha raccontato con calma e intensità di come sua madre gli avesse salvato la vita trovandolo in piedi su una sedia con un cappio al collo. Aveva legato la corda a una trave della soffitta.
Mi ha detto che certi dolori li riconosci. E’ stato il primo -e forse l’unico, ora che ci penso- a dirmi che mi serviva una mano.
Sono tornata all’appartamento piangendo, e con la consapevolezza spaventosa di avere un problema.

Poi sono tornata in Italia, e qui ho conosciuto la persona che più mi ha fatto bene e male allo stesso tempo in quel periodo; ne avrò parlato un sacco qui sul blog, lo avevo soprannominato Il Pirla perchè lo amavo e lo odiavo contemporaneamente e lui se ne stava in balia delle mie emozioni senza fare nulla.
Non abbiamo mai avuto una storia, ma quello che avevamo era malsano, ora lo vedo. 

Lui era esattamente quello che cercavo inconsciamente: un continuo, costante ribadire che io non ero abbastanza.
Non a parole, quello mai.
Ma con lui sono stati mesi e mesi di “mi piaci tantissimo, ma non possiamo stare insieme” “vorrei davvero, ma è meglio di no”, che nella mia testa era un logorante, estenuante: non sei abbastanza. Abbastanza cosa? Abbastanza tutto. Qualunque aggettivo positivo potesse venirmi in mente, io non lo ero.
Non ero abbastanza: carismatica, intelligente, carina, atletica, interessante, amabile audace, intraprendente, divertente, attraente.

Non ero niente e non mi sentivo niente, e mi sembrava semplicemente ovvio che lui non mi desiderasse, che non volesse nemmeno provare a stare con me. Perché non ne valevo la pena. Tutt’ora ho questo pensiero: non ne valgo la pena. E’ abbastanza difficile convivere con questa convinzione, ma ci sto lavorando.
Insomma, lui era quello che mi serviva per rimanere a galla: era una boa nell’oceano in tempesta che era il mio cervelletto depresso; sapere che l’avrei visto il giorno dopo o nel weekend mi faceva andare avanti; ero impaziente all’idea di incontrarlo. Allo stesso tempo era la persona peggiore che potessi trovare, perché ha reso le mie insicurezze ancora più solide e più difficili da estirpare.

In realtà ci facevamo del male e del bene a vicenda.
Lui con me parlava di quante volte aveva pensato di impiccarsi in salotto, io gli confessavo di quella volta in cui ero stata sveglia tutta la notte pensando di tagliarmi le vene con il cotlello da cucina del mio coinquilino a Friburgo.

Non sapevamo come uscirne, però stare insieme ci faceva bene.
Con lui mi sentivo a posto, poi tornavo a casa e mi demolivo ogni volta di più.

Alla fine ho deciso di andare in terapia.
Credo che la prima telefonata, quella per prendere appuntamento per la prima seduta di psicoterapia, sia stata una delle più difficili della mia esistenza spelacchiata. Voleva dire arrendersi all’idea di avere un problema, cosa che io continuavo a negare a me stessa.

Non mi sentivo meritevole nemmeno di avere una malattia mentale.

Fine prima parte

Regà, che pesantezza eh?
Chiedo venia. Non so, oggi sono in modalità “flusso di coscienza palloso e melodrammatico”.
Non sono sicura di scrivere la seconda parte, forse non interessa a nessuno ed è un’agonia starmi a leggere quando scrivo cose serie, BOH! Se vi va ditemi la vostra.
Ovviamente mi farebbe piacere leggere i vostri commenti spelacchiati, di qualunque natura: sia cose serie sia cose imbecilli per tirarmi fuori da questo viale dei ricordi.
In ogni caso, vi attendo con impazienza.
Buona serata Spelacchiati miei, hasta la pasta!

Pubblicato in: depressione, random

Ciance sparse: tra il serio e l’imbecille

Aaaah, miei cari, salve a tutti. Come state?
Io sono di quello che definisco “umore MEH”, ovvero grigetto. Grigio occhiaia.
Stasera i miei pensieri rimbalzano qua e là, li sento praticamente sbattere contro le pareti umidicce della mia scatoletta cranica (grande come una di quelle di tonno, per contenere un cervelletto incredibilmente piccolo non è che serva molto spazio).
E’ tipo il pinball, pensieri che schizzano disordinatamente su e giù per le rampe facendo però un punteggio misero perché non colpiscono nessun moltiplicatore di punti. Si moltiplicano solo le bestemmie che tiro ininterrottamente, una sequela di imprecazioni a mitragliatrice.

Visto che le cose non vanno già abbastanza male volevo aggiornarvi un po’ sulla mia situazione mentale.
Mi è comparso un nuovo brufolo sul mento, fine.
Madonna regà quanto NON faccio ridere da uno a dieci, in cui uno è comunque tantissimo? Secondo me come minimo SEICENTO.

Battute veramente imbecilli a parte volevo sfogare un po’ della mia irrazionale pazzia, perché è da un po’ che faccio post imbecilli illudendomi da sola di essere una persona divertente e allegra quando la verità è che io mi sto veramente poco simpatica.
Mi detesto sotto così tanti punti di vista che non saprei da dove cominciare e in questi giorni vorrei decompormi. Se poi fosse possibile essere riassemblata completamente da capo, fisicamente, mentalmente, tuttamente, accetterei volentieri, se no potete lasciarmi tranquillamente a raggrinzire sempre di più.
Odio anche scrivere queste cose perché penso possa sembrare una richiesta di “ma Sara cosa dici sei meravigliosaaahhhh” ma la verità è che penso che qualcun altro si senta così e forse è giusto parlarne e parlare del fatto che non va bene sentirsi così.
Me ne rendo conto, è davvero un problema. Un problema serio, che mina un po’ tutti gli ambiti della mia vita.
Me ne accorgo in particolar modo ora che ho Mr Batterista accanto: lui è fantastico, io mi sento un miserabile lombrico immeritevole di attenzioni e affetto perché, onestamente, mi sto sui coglioni. Mi do fastidio in tutto. La mia faccia, le mie espressioni, il mio reagire alle cose, il modo in cui parlo, la mia voce, quello che dico, come lo dico, come mi sento, quello che penso.
Mi sento stupida e fuori luogo in quasi tutti i contesti, e se non mi sento così mentre vivo le cose mi sento così a posteriori, quando il mio cervelletto parte in quarta a recriminare tutto. 
Se ho fatto passi avanti grazie alla terapia, mi rendo comunque conto che di strada ne ho ancora tanta da fare, ed è strada sterrata, fangosa, piena di buche e io vorrei soltanto starmene a letto invece che percorrerla.
Niente, fine momento piagnisteo, se qualcuno volesse venire a prendermi a sprangate me lo dica che gli faccio avere il mio indirizzo e una spranga piuttosto pesante.

Per dimostrarvi che comunque sono una persona becera e imbecille vi narro due aneddoti un po’ pirli.
L’altro giorno ho dato un esame (passato con 23, grazie a qualche divinità) e avendo un’oretta di tempo prima di prendere il treno e probabilmente incoronirmi mortalmente sono andata a fare un giro di shopping.


Sono entrata in un negozio perché ero in preda ad un raptus di acquisti compulsivi grazie ai saldi e non so per quale assurda ragione ho deciso di provare una tuta, non da ginnastica eh, una di quelle pantaloni+parte di sopra, che mi stanno proverbialmente da cani ma ero imbecillemente ottimista.
La scena è questa:

Esco dal camerino e mi guardo allo specchio. Orrore e raccapriccio, per poco non vomito lì nel corridoio del negozio, faccio per catapultarmi di nuovo nel camerino e darmi fuoco per aver solo pensato di poter provare una tuta quando alle mie spalle sento una specie di rantolo, un singulto, un verso di disgusto e schifo.

Dovevate vedere la faccia della commessa che mi stava guardando.
Una donna distrutta.
Un essere umano devastato.
Nemmeno i reduci del Vietnam, giuro.
Se avesse visto un lombrico sventrato sarebbe stata meno schifata.
Nei suoi occhi leggevo chiaramente, a caratteri cubitali, “PASSATEMI UN SECCHIO CHE DEVO VOMITARE”.
Una donna segnata per sempre, nel profondo, dall’atroce visione di me strizzata in una tuta.
Anni e anni di terapia per colpa della sottoscritta, forse dovrei farle un bonifico.
Questa è una mia supposizione ma secondo me una volta rimasta sola ha preso a testate il muro sperando in una commozione cerebrale che le facesse dimenticare lo scempio appena visto.
Signora, mi perdoni, non lo faccio più. Giuro che d’ora in poi faccio solo shopping online.
GIURO. 

Poc’anzi invece ero intenta ad adempiere un’impresa titanica, una missione ardua, pericolosissima ed estremamente estenuante: stavo tentando di estirpare il vello che cresce su di me come i muschi sulle cortecce.
Non so come facciate voi, Spelacchiate e Spelacchiati all’ascolto, ma ormai prenotare un appuntamento dall’estetista è diventata una Mission Impossible che nemmeno Tom Cruise paracadutandosi da una navicella spaziale riuscirebbe a stendersi su quel lettino e farsi massacrare l’epidermide.

Ma torniamo a me, che sono egocentrica quanto una mangusta: ero lì che mi contorcevo come un’anguilla morente, una gamba dietro la testa, l’altra direttamente a Bari, la cera spalmata un po’ ovunque a chiazze disomogenee, un dolore incredibile che quasi svenivo,  faccio per prendere il mio cellulare… e quello non si muove.
Parbleau, che cosa accade?
Semplice: sono riuscita a cerettare il telefono.
L’ho spiaccicato su un tocco di cerca fusa senza rendermene conto. Ovviamente dritto sulla fotocamera da quindici fantastilioni di megapixel (che comunque non sono in grado di camuffare la mia faccia da natiche, quindi tutti soldi buttati), e non voleva saperne di staccarsi.

Ho dovuto sgrassare via la cera con l’olio.

Alla luce di questi recenti avvenimenti la domanda è solo una: vado di veleno o rivoltella? Oppure vado in Papua Nuova Guinea ad sgranocchiare animali a caso finché non contraggo un nuovo virus sperando che mi renda intelligente. 

Detto ciò Follettini e Follettine Spelacchiatini e Spelacchiatine, voi come state? So che ormai siamo tutti stremati da questa situazione assurda in cui riversiamo, ma spero che vi stiate tenendo occupati e soprattutto al sicuro.
Nei commenti sentitevi liberi di mandarmi a fare in chiul, raccontarmi quello che volete, insomma avete come sempre carta bianca e almeno ci facciamo tutti un po’ compagnia.
Hasta luego, alla prossima spelacchiataggine!

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Depressione&Dintorni: dannato o benedetto tempo per riflettere

Buondì miei cari Spelacchiati, come state?
Dopo tanti post cretini oggi vorrei farne uno un pochito più serio, spero non me ne vogliate a male.

Temevo che avere così tanto tempo da passare con me stessa senza grandi distrazioni potesse portarmi ad un picco di depressione notevole, invece mi sto scoprendo molto più rilassata lontana dalla vita “normale”. Allo stesso tempo però mi sto rendendo conto di tante cose, e che tante cose ho sempre cercato di nasconderle, incapace di esprimerle.

E’ quindi il momento di fare un bagno di onestà.

Ho preso un’agenda e sto scrivemdo.
Scrivo tutto quello che non sono ancora mai riuscita a dire alla mia psicologa, cose di cui mi vergogno enormemente, cose che mi hanno fatta soffrire, cose che cerco costantemente di ricacciare indietro in qualche anfratto buio del mio cervello sperando che si dissolvano e spariscano per sempre. Queste cose però sono come la muffa, ovvero fanno schifo e prolificano se non le tratti; sono come delle blatte che scorrazzano qua e là, e io mi sono sempre limitata a sperare che se ne stessero rintanate sotto un mobile,che non facessero rumore e non si facessero vedere.
Ma sono sempre lì e sono sempre più grandi, si autoalimentano, si trasformano, si distorcono nella mia mente diventano pensieri torbidi e quasi ossessivi, come se cercassero in tutti i modi di venire fuori, di essere liberati e ascoltati, anche se liberarli ed ascoltarli mi terrorizza.

Sto parlando di ricordi di molto tempo fa, cose che sono rimaste immagazzinate da qualche parte del mio cervello che ha rielaborato il tutto e continua a farlo in maniera a volte palese a volte subdola. Ah, che pazienza con questo cervelletto che mi ritrovo.

Tutte le cose che sto scrivendo mi fanno sentire a disagio. Mi sento fondamentalmente stupida, in imbarazzo, e non so se avrò mai davvero il coraggio di far leggere alla mia Psycho le parole che sto scrivendo in questi giorni; sono cose che non ho mai detto a nessuno, parole che non ho mai e poi mai pronunciato ad alta voce.

Perché vi dico tutte queste cose strambe e probabilmente noiose? Perché sono pazza e perché spero che possiate trarre qualcosa da questo post e che possiate cercare di fare un po’ della più sincera autoanalisi delle vostre ombre, di quelle cose che vorreste nascondere sotto la sabbia e poi prendere quella zolla di sabbia e spedirla su Marte e poi far esplodere il pianeta.
So quanto sia difficile ma mi sto rendendo conto che a volte fare quello che ci spaventa è di aiuto.

Insomma ragazzi, scusate per questo post un po’ strano, un po’ inutile, un po’ fumoso, ma avevo io in primis bisogno di scrivere queste cose e di condividerle con voi, che ormai siete i miei confidenti di fiducia. Poveri voi!

Spero che i miei Spelacchiati se la stiano passando bene, fatemi sapere come butta da voi e se questa quarantena vi sta facendo riflettere o accorgere di cose che prima non avevate il tempo di notare.
Hasta la vista, a presto con nuovi post più leggeri di questo!

Pubblicato in: depressione, Senza categoria

Ciance (semi)serie sugli antidepressivi

Oggi vorrei parlare di cose serie senza ammorbarvi come se non ci fosse un domani… riuscirà la nostra eroina per niente eroica (e neanche stupefacente) nell’impresa? Boh. Non ne ho idea, vediamo.
Intanto ho notato che i post sulla depressione sono quelli che vi interessano forse di più, ed è una cosa che reputo bizzarra perché mi sembra di annoiare tutti a morte…dunque grazie, siete proprio degli spelacchiati coi fiocchi, vi lovvo tutti!

Metto le mie zampette avanti: non è un argomento che tratto volentieri. Ho ancora parecchie difficoltà nella mia strada verso il benessere psichiatrico e, per la peppa e la peppina, è un percorso a ostacoli che nemmeno alle Olimpiadi si vedono. Più che ostacoli direi che c’è di tutto in questo percorso: fossati pieni di alligatori, precipizi, pietre rotolanti che ti inseguono come in Crash Bandycoot… Un casino. Io poi sono la persona meno ginnica del mondo, lo sapete, quindi vi lascio immaginare come io affronti tutto ciò.

A ‘sto giro vorrei parlare di una cosa che ho ovviamente provato sulla mia pellacchia di persona stupida che ancora non accetta davvero che la depressione sia una malattia.
Sto parlando -rullo di tamburi, prego- dello smettere di prendere gli psicofarmaci totalmente random, senza alcuna ragione se non perché “mi sento meglio”.

Lo so.

LO SO, è la cosa più sbagliata del mondo da fare, è pericolosa e cazzo, se state leggendo queste frasi e anche voi vivete la tentazione di smettere di prenderli senza consultare nessun medico vi dico io una cosa, quello che qualcuno dovrebbe dirmi quando lo faccio io: “NON FARLO, ESIMIA TESTA DI CAZZO, SIEDITI E PRENDI LE TUE PILLOLETTE, CHE POI SCLERI PEGGIO CHE MAI E TI PENTI DI TUTTO, RAZZA DI COGLIONCELLA DA STRAPAZZO. Sei laureata in medicina? In psichiatria? Eh? Lo sei? No, quindi chiudi il becco e ne parli con il tuo psicologo/psichiatra/chiunque ti abbia in cura e vedete di cambiare il dosaggio, se necessario.”

Ecco, questo dovrebbe urlarmelo qualcuno visto che io, ciclicamente, entro in quel periodo. Quel periodo in cui mi sembra non dico di stare bene, ma quantomeno di stare male in una maniera normale, non dettata da una malattia. 

Penso “oh, fico, sono guarita” e quando mia mamma mi chiede se ho preso quello che dovevo prendere mento spudoratamente, come Salvini quando dice di avere Maria dalla sua parte. “Sì, mà, non mi assillare”.

E poi?

Poi sto bene.

Per i primi giorni sto bene, tutto tranquillo.

Poi piano piano si ricomincia. Si torna a piangere sul bus mentre vado a dare ripetizioni o al bar mentre faccio colazione. Si torna a non riuscire ad ascoltare nessuno perché vorrei solo starmene in un angolo da sola ad odiarmi, perché è questo che merito in fondo.
Si torna ad avere attacchi di panico nei momenti meno opportuni -al cinema, in macchina- e non poterlo neanche dire a nessuno, quindi sto lì ad annaspare, con le mani formicolanti, la lingua paralizzata, il braccio destro completamente bloccato e dolorante.
Si torna a dormire mezz’ora a notte, ad avere le occhiaie che neanche il correttore di Kat Von D -che praticamente è stucco che ti spalmi sotto gli occhi- riesce a coprire.

Si ritorna ai pensieri negativi, negativissimi. Altissimi, non purissimi, negativissimi.

E allora quando mi sembra di star sprofondando tantissimo di nuovo allora mi decido. Torno a prendere quelle pillole, controvoglia, perché pensavo che stavolta sarebbe stata la volta buona. Che non mi serviva niente per stare in maniera normale, che non ho davvero un problema.

E tutto questo mi porta a ribadire un concetto: se conoscete qualcuno che soffre di depressione (che sia stata accertata come nel mio caso o meno) frasi come “Sara, ma tu esageri” “dai, sorridi un po’ alla vita!” “è tutto nella tua testa, se ti metti in testa che stai bene starai bene” e cose del genere fanno solo male.
Perché poi ci crediamo.
E smettiamo di prendere le medicine.

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Di suicidio, Pirli e depressione

La prima volta che c’ho pensato seriamente ero in Germania in vacanza studio in un piccolo paese pieno di verde e di cose da fare.

Ero lì da un paio di settimane, mi ricordo che ero di pessimo umore. Avevo pensato che cambiare aria, fare un viaggio, iniziare una cosa del genere mi avrebbe fatta sentire molto meglio. Erano già mesi (forse anni) che  stavo male senza sapere perché, scoppiavo a piangere a dirotto nei momenti più impensabili, mi sentivo all’improvviso al colmo della disperazione e volevo soltanto passare le mie giornate sdraiata per terra a fissare il soffitto. 
Rendermi conto che neanche cambiare aria e andare in Germania aveva aiutato il mio stato di salute mentale mi ha fatta stare ancora peggio.

Il mio coinquilino era un cuoco e in cucina c’erano dozzine di coltelli di tutte le forme e dimensioni, manco fosse Chef Tony della Miracle blade.
Come quelli dei film horror, coltelli grossi quanto un mio avambraccio mi guardavano mentre io ero seduta sulla poltrona di fronte a loro; quella sera ero in una specie di trance, passava il tempo ma io non riuscivo a fare niente. Sono rimasta seduta per ore.
In quel periodo, prima degli psicofarmaci quindi, mi capitava molto spesso di sentirmi estraniata dal mondo, come se tutto succedesse in una galassia lontana lontana da me. So che è molto difficile da capire, non credo ci siano parole per descrivere quella sensazione di totale annullamento; mi sembrava di non poter provare più niente, e il dolore fisico pareva mille volte meglio di quello spaventoso nulla che mi pervadeva -e che tutt’ora a volte mi pervade-.

Penso me la ricorderò per sempre, quella sera; sono rimasta per ore a immaginarmi la scena.
Il sangue. Il sollievo. 

Una cosa che cambia molto in base alle fasi della mia depressione è appunto il mio pensiero verso la morte. Ora, per esempio, mi fa paura, vorrei non succedesse mai.
Durante le crisi depressive invece sembra davvero un grandissimo favore, un jolly, un “okay, okay, per quanto vada male c’è quella via di uscita, non disperarti perché c’è un modo per non stare più così”.

Fino a quel momento il suicidio era stato parte dei miei pensieri in maniera molto più marginale; seducente, ma mai così vivido.
Da quel giorno in poi invece è diventato un pensiero fisso, quasi ossessivo.

Ho cominciato a pensarci ogni singolo giorno, quasi senza interruzioni. 
Non vi darò i dettagli più crudi e più distorti dei miei pensieri.

Ma torniamo a noi; dopo due mesi sono tornata in Italia e ho conosciuto il Pirla, il famoso Pirla. Mi ha stravolta. Mi faceva stare bene, uscivo con lui e mi sentivo per la prima volta da anni viva ed euforica e quando tornavo a casa pensavo soltanto al weekend successivo, quando lo avrei rivisto. Avevo di nuovo un motivo per aspettare un domani.

Anche adesso è così, in effetti, forse per questo non riesco proprio a lasciarlo andare, questo maledetto Pirla che amo così male.

In ogni caso, il sollievo grazie a lui è stato solo momentaneo e tra una cosa e l’altra ormai i miei pensieri erano spesso e volentieri in caduta libera; pensavo alla morte e stavo seduta sotto alla doccia per ore, piangendo da sola, e alla fine la mia parte più razionale ha preso il sopravvento: non stavo bene, mi serviva una mano.

Sono passati quasi due anni da quella sera in Germania, io sto meglio -non bene ma meglio è già tanto!- le mie crisi sono molto più sporadiche. Capitano tutt’ora periodi in cui è proprio una guerra alzarmi dal letto e smettere di piangere e mettere a tacere quella sensazione orribile di vuoto che si espande dentro di me e mi fa sentire lontana da tutto e da tutti, come se fossi in una trasparente, inavvicinabile cella di isolamento che tutti ignorano. Capitano, ma va meglio. Li gestisco meglio.
So che passano, quei momenti, quindi sì a volte rimango immobile giorni interi aspettando che passino, altre volte riesco a costringermi a fare qualcosa, tenermi impegnata, muovermi.

Spero, spelacchiatini miei, di non avervi intristiti o turbati con questo post nato totalmente a caso, non era quella l’intenzione.  Penso sia importante parlare di queste cose, per quanto sia difficile mettere in parole quello che penso e che provo a riguardo… E’ quasi esasperante cercare di descrivere una cosa del genere, abbiate pazienza con me e con chiunque vicino a voi abbia di questi problemi. 
Fatemi sapere se vi ho ammorbato fin troppo con questi post o se per voi può essere in qualche modo interessante.
Per me è sicuramente terapeutico, mi sento già un po’ più leggera adesso.

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Un passo indietro. (Depressione)

Questo post, scusatemi, sarà poco divertente e un po’ crudo. Leggete a vostra discrezione.

Questa settimana ho fallito.
Ho sbagliato, ho fatto un passo indietro.
Qualche giorno fa ho avuto una crisi depressiva, una di quelle forti.

Non mi capitava così forte da un po’, pensavo stupidamente di aver superato quella fase anche se razionalmente so che non è una fase, che mi succederà per sempre di avere questo tipo di crisi e che devo imparare a gestirle molto meglio di come ho fatto martedì.

Dicevo, ho avuto una crisi depressiva.

Il giorno prima ero stata ad una festa, avevo indossato un vestitino nero e una parrucca fucsia. Un ragazzo ci ha provato con me, abbiamo giocato tutta la sera a giochi di gruppo, è stato carino.
E’ stato carino finché non è precipitato tutto in un vortice di disgusto per me stessa e fastidio nei confronti degli altri; mi sono chiusa, isolata in mezzo a loro, ho smesso di parlare, di ridere, di voler essere lì. 

Sono tornata a casa con un senso di nausea allo stomaco.

Il giorno dopo ero insolitamente allegra. Mi sforzavo così tanto di essere allegra da risultare esagerata, finta. Ogni volta che ridevo mi veniva da piangere.

Alla fine, la sera, sono esplosa.

Insomma, ho avuto una crisi depressiva.

Non sentivo niente se non nausea e confusione, era diventato improvvisamente tutto nero e ostile. In alcuni momenti non sentivo nulla, in altri era come avere una guerra nel cervello.

C’erano i miei a casa ma stavano dormendo; erano circa le due di notte quando sono scesa in cucina e sono ricaduta in un’abitudine che pensavo di aver lasciato alle spalle.

L’autolesionismo.

Il pensare che il male fisico sia più sopportabile di quello schifo che provo dentro, il desiderare di sentire del male piuttosto che non sentire niente, e tutte quelle altre cose da manuale che trovate su internet.

Ho preso uno dei coltelli da cucina, mi sono arrotolata la manica del pigiama e ho premuto la lama sulla pelle, abbastanza in alto da rendere più difficile ora vedere i tagli grazie alle maniche lunghe.

Una, due, tre volte.

Non esageratamente profondi, abbastanza da sanguinare per un po’.

A ripensarci adesso mi sembra una cosa così idiota da fare che mi chiedo cosa stessi pensando in quel momento, se stessi almeno pensando.

So che non vorrò dirlo alla mia psicologa. Non vedrà i tagli, non lo saprà se non sarò io a dirglielo.

Avrò il coraggio di parlargliene? Non lo so. Non lo so davvero. Dovrò sforzarmi molto, ma non so se ne sarò in grado.

Nel weekend dovrei andare ad un altro concerto.

Mi ha invitata un ragazzo conosciuto due settimane fa.

Dice che gli farebbe piacere.

E io non voglio andare.

Non voglio, non voglio, non voglio.

Ho paura che succeda di nuovo, che io mi spenga, che una volta tornata a casa voglia soltanto mettermi sotto la doccia e piangere per ore, sentendomi in colpa per essermi rovinata da sola un’altra serata. Ho paura che lui abbia delle aspettative nei miei confronti, ho paura di essere a disagio, ho paura di finire di nuovo come l’altra sera, in cucina alle due di notte con un coltello in mano.

Spero che questo post non vi faccia troppa impressione, avevo bisogno di ammettere a me stessa e a qualcun altro che a volte fallisco, nonostante l’impegno.

E’ un passo indietro in un cammino veramente lungo e difficile, per quanto io ci scherzi su.

Capita di sbagliare. Come capita a me capiterà a -quasi?- chiunque si trovi in una situazione difficile, ma spero che post come questi possano un giorno aiutarvi a sapere che per forza di cose a volte dobbiamo sbagliare e fallire per riprovare con più determinazione.

Per oggi è tutto, tornerò presto con post più allegri, lo giuro.

Buonanotte, Spelacchiati.