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Ciance sparse: Lavoro e Cavernoma, qualcuno mi salvi

Buonasera miei cari spelacchiati, come state?
Io sto… seduta.
Un po’ sbilenca, pendo da un lato perchè ho una spalla incriccata.

Non volendo fare la Wonder Woman della situazione ed essendo sempre onesta qui sul blog vi dico che sono state settimane abbastanza dure per me; iniziare un nuovo lavoro da una parte mi ha distratta ma dall’altra ha tirato fuori tutte quelle ansie da prestazione e da “non sono abbastanza intelligente/sveglia/capace” che sono sempre in agguato, pronte a farmi attorcigliare lo stomaco come se non ci fosse un domani.
Ma ovviamente il problema più grande resta Anselmo e l’idea dell’intervento.

Giorni fa ho avuto dei sintomi un po’ bizzarri e chiedendo consiglio alla mia neurochirurga sono andata in pronto soccorso perché potevo star avendo un’altra emorragia cerebrale, dunque urgeva una tac; stare cinque ore sulla barella in attesa che mi visitassero mi ha risvegliato tutte quelle sensazioni che avevo cercato di chiudere in un cassettino della mia mente. Mi ha ricordato tutta la paura e il dolore provati nelle settimane che ho passato ricoverata, e a ripensarci adesso non augurerei a nessuno quello che mi è capitato. ‘Sto cazzo di Anselmo oh.

Per fortuna è stato un falso allarme e in pronto soccorso sono stati tutti gentilissimi con me, che a un certo punto ero solo presa da sensi di colpa e al mio “scusate se vi ho fatto perdere tempo!” mi hanno risposto che non ho fatto perdere tempo a nessuno e ogni volta che avrò dei sintomi simili dovrò andare e farmi fare una tac.

Questo mi ha gettata nello sconforto per un po’. Sembra non finire mai questa attesa, e ora anche l’attesa fa paura, e allora tra un po’ mi tatuo in fronte “FANCULOOOOOO” e basta.

Passando a note più cretine, il lavoro procede.

Vi giuro, se qualcuno venisse lì con una telecamera potrebbe girare un documentario intitolato “l’orso nella gioielleria”.
Sono goffa, ingombrante, non distinguo una fede martellata da una francesina, lo zircone per me è una vitamina, i diamanti per quanto mi riguarda nascono dal letame e non da macchinose lavorazioni, se qualcuno mi chiede di fare un’incisione su un gioiello piuttosto mi strappo le mani e passo la maggior parte del tempo a chiedere qualunque cosa a chiunque mi capiti a tiro.

Breve carrellata di aneddoti degli ultimi giorni:

  • Signora di una notevole età che entra baldanzosa perchè vuole comprarsi un anello; ne sceglie uno ma, parbleau, non le entra. “Ma non è possibile, questa è la mia taglia, non ho mica le dita cicciotte” e con una forza sovraumana si infila l’anello a forza, così prepotentemente che ancora un po’ le arrivava al gomito.
    Indovinate chi ha passato MEZZ’ORA a cospargersi la mano di igienizzante per cercare di levarsi quel cazzo di anello, e chi invece ha pensato “ommioddio devo tagliarle il dito, non vedo altre soluzioni”.
    Ero già lì pronta con le forbici.
  • Una ragazza mi chiede di vedere una collana esposta dunque io con tutto l’ottimismo del mondo e un sorriso falso stampato in faccia infilo la chiave nella serratura della vetrina, giro, E LA STRACAZZO DI SERRATURA MI RIMANE LETTERALMENTE IN MANO.
    Penso di aver fissato con orrore la chiave e la serratura che mi erano rimaste in mano per almeno cinque secondi.
    Pure la cliente era sconvolta.
    Strillo per chiamare la mia collega che si piega in due dal ridere per il mio sconvolgimento e mi tranquillizza dicendo che succede sempre. Qualcuno deve ancora riattivarmi il cuore però.
  • Ragazzo estremamente carino, quel che si suol dire un bel fieu, vuole comprarsi un orologio della Madonna ma è indeciso.
    Io sfodero tutte le mie armi per convincerlo, dal sorriso smagliante allo sciorinare le caratteristiche del più fico degli orologi, il tutto con la mia solita cretinaggine ovviamente…
    Alla fine il ragazzo non voleva più l’orologio, ma il mio numero.
  • Cliente che prova più o meno tutto il negozio ma non gli va bene un cazzo di niente perchè “questo orologio ha il quadrante troppo piccolo, questo non ha abbastanza diamanti, questa catena non è da abbastanza carati…” alla fine se ne esce con “ma qui vendete bigiotteria! Tesoro, io sono stato in tutto il mondo, ho visto gioielli che qua non avrete mai”.
    … Ma te lo scrivo su un foglietto così ti rimane il memo o te lo dico direttamente? VAFFANCULOOOOOOOOO

E niente, questa è la mia vita per ora. Sono un ammasso di ansie un po’ contorte e ritorte su loro stesse, vado avanti per lo più per inerzia.
Voi come state invece? Raccontatemi, narratemi, sfogatevi, fate quello che volete!
Hasta la Pastaaaaaaaahhhhh!

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La storia della mia depressione pt.2

Buonasera miei cari Spelacchiati. Come state?
Io sto letteralmente ululando dal ridere pensando e ripensando a Morgan che ha pubblicato la versione estesa di “Le brutte intenzioni” e la parte in cui dice testualmente “tu sei cattivo e sembri Mortimer” che mi fa rotolare dalle risate ogni singola volta che lo ascolto.
Come vi avevo già detto non mi aspettavo così tanta comprensione, empatia e così tante risposte alla mia esperienza con la depressione, mi avete davvero riempita di orgoglio spelacchiato e vi assicuro che quando qualcosa mi turba torno subito a leggere i vostri commenti che mi aiutano assai.
Ora andiamo avanti con la seconda parte di quello strano, inquietante periodo della mia vita.

La prima psicologa da cui sono andata era giovane, aveva uno studio asimmetrico e alla parete c’era appeso il quadro di un mare in tempesta; me lo ricordo perché fissavo quello durante le sedute, tutto il tempo. Da mesi non riuscivo a sostenere lo sguardo di nessuno, perché quando mi sentivo osservata il mio cervello andava in tilt, partivano i pensieri ossessivi: “sta guardando lo spazio tra i miei denti” “dev’essere disgustato dal mio naso troppo grosso” “si sarà accorto che ho le occhiaie, le labbra spaccate, la pancia gonfia, le cosce grosse. Sarà infastidito dalla mia voce, da quello che dico. Ora mi starà odiando, e se non mi odia è solo perché gli faccio pena. Voglio andarmene.

Mi sentivo rivoltante e non capivo come la gente riuscisse a sopportare la mia presenza.
Non soltanto mi percepivo fisicamente orribile ma stavo diventando anche una compagnia lagnosa e pesante, quando non ero taciturna e quindi una specie di enorme sasso da portarsi dietro.
Vivevo con la convinzione che i miei amici mi chiedessero di uscire perché facevo loro pena; pensavo che i ragazzi mi offrissero da bere per scommessa. Se qualcuno rideva, davo per scontato stesse ridendo di me.
Mi odiavo da morire.
Mi ricordo che al locale dove andavo di solito c’è uno specchio che occupa un’intera parete e io gli davo sempre le spalle; quando capitava per sbaglio di guardarmi riflessa il mio stomaco si attorcigliava in maniera dolorosa e ammutolivo.
Come fanno a guardarmi?
Voglio smettere di guardarmi

La prima psicologa, dicevo, era giovane e strana. L’avevo scelta completamente a caso, optando per lei solo perché nell’immagine su internet aveva un golden retriever in braccio.
Non mi trovavo bene, con lei; quando le raccontavo come mi sentissi lei si sperticava in espressioni di esagerato dispiacere e mi ascoltava annuendo con aria comprensiva, ma mi sembrava falsa e che fosse
accondiscendente; mi compativa, ma io non volevo compassione, volevo che mi desse una formula magica per smettere di essere pazza. “Scusa, oggi sono particolarmente pazza” era il mio modo di comunicare ai miei amici che quel giorno stavo particolarmente male.

Dopo un mese e mezzo di sedute questa psicologa mi ha fatto una diagnosi spaventosa: bipolarismo. Mi ha scritto qualcosa su un foglietto dicendomi di andare da un suo collega psichiatra che mi avrebbe prescritto il litio.
Spelacchiati miei, non starò qui a dilungarmi su cosa sia il bipolarismo e quanto male possa fare il litio ad un essere umano perché non voglio dirvi cose sbagliate.
Io, comunque, non mi sentivo bipolare. Che poi forse è quello che direbbe ogni bipolare. Però io non avevo episodi di mania ma soltanto di quella che ancora non chiamavo depressione.

Quindi me ne sono sbattuta le natiche del suo biglietto, ho cancellato il suo numero e mi sono rivolta ad uno psichiatra stavolta basandomi sulle stelline di fianco al suo nome.

La scelta migliore della mia vita, probabilmente.

Durante la visita neurologica con lo psichiatra mi sono accorta di non riuscire a fare cose basilari come toccarmi il ginocchio e poi il naso o stare in equilibrio per più di qualche secondo.
La visita è durata poco ma lui mi ha invitata dirgli tutto: ogni cosa, anche quella che mi pareva più insignificante, di come stessi.
E quindi gli spiegai degli attacchi di panico, della repulsione verso me stessa, della fatica, della spossatezza, dei pianti isterici, dell’isolamento, dell’insonnia, del fatto che in alcuni periodi mangiassi tantissimo e in altri pochissimo, dell’irritabilità, del non sentirmi nel mio corpo e una marea di altre cose.

Mi ha prescritto degli antidepressivi, dei farmaci per dormire e della benzodiazepina da prendere durante gli attacchi di panico particolarmente forti, quelli in cui mi si bloccava la lingua in bocca e mi sembrava che mi stesse per esplodere il braccio. In realtà l’avrò preso tre o quattro volte perché avevo paura di assuefarmene. E poi mi sembrava di meritarmi gli attacchi di panico, quindi volevo viverli. Mi sembrava un modo di espiare una colpa.
Alla fine lo psichiatra ha decretato “Non sei bipolare, Sara. Soffri di depressione.”

Mi sentivo ancora più sbagliata. Non era giusto che io stessi così, che io, ragazza privilegiata sotto ogni punto di vista, fossi depressa. 

Credo che sia una cosa normale sentirsi così e lui fosse abituato perché a grandi linee mi ha spiegato che se in quel momento avessimo analizzato il mio encefalo e lo avessimo confrontato con quello di una persona non depressa avremmo visto differenze notevoli. Avevo recettori estremamente inibiti, che mi portavano a sentire tutto molto lontano da me; non producevo abbastanza serotonina e di conseguenza altri enzimi fondamentali.

“Non diresti a una persona col diabete che è colpa sua e di non curarsi. Non colpevolizzeresti qualcuno che si è rotto una gamba o ha una polmonite. Tu hai una malattia: una malattia vera e propria, pericolosa, che non hai scelto tu di avere e che non ti sei in alcun modo procurata.”
Non ero molto convinta.
Mi ha dato il numero di quella che è tutt’ora la mia psicologa, colei che grazie alla terapia mi ha fatta uscire da quella fossa di fango in cui mi sentivo impantanata… ma di lei parlerò nella prossima parte.

Intanto le persone intorno a me non si accorgevano del mio malessere, e quei pochi che se ne accorgevano non lo capivano.

Molte di queste persone hanno detto cose di cui ora si sono dimenticate.
Io non mi dimentico.

Non porto rancore, lo so che non potevano comprendere, però le loro parole hanno fatto male.
“Sara, sei troppo negativa, su con la vita!” “E’ che non ti impegni abbastanza” “Dovresti solo fare un po’ di sport” “Guarda che tutti abbiamo dei problemi, se facessimo come te…” “perché sei così debole?” “il tuo unico problema è che non sei abbastanza forte e decisa” “non hai volontà di cambiare le cose, devi metterti tu in testa che stai bene” “tu non ti sforzi neanche un po’” “ma perché non ti dai una svegliata?” “guarda che non puoi passare la tua vita così eh” “e quelli che muoiono di fame o si spaccano la schiena a lavoro cosa dovrebbero dire?”.

La verità è che io mi sforzavo tantissimo. Mi sforzavo di non cedere a quella parte di me che quando ero sulla banchina ad aspettare il treno mi diceva di buttarmi sui binari. Mi sforzavo di non chiedermi, di notte quando non riuscivo a dormire, quale coltello nel cassetto in cucina avrebbe scivolato meglio sulla mia pelle. Mi sforzavo di non trovare in qualche modo salvifica l’idea di, semplicemente, non esistere più.
Mi sforzavo di tirarmi su al mattino, di rivolgere la parola alle persone, di ascoltare quello che avevano da dirmi. Non stavo muovendo le montagne, ma tutto ciò mi toglieva quel poco di energia che avevo.
Con molti amici ho smesso di parlare e di uscire. Non ce la facevo e loro non avevano voglia di star dietro a una persona così problematica. Non biasimo nessuno di loro: non rispondevo ai messaggi, evitavo le chiamate, davo buca alle uscite quindi starmi dietro era impegnativo.
L’unica persona che vedevo costantemente era quell’uomo che continuava ad occupare gran parte dei miei pensieri e che l’avrebbe fatto ancora per parecchio tempo.

Fine seconda parte

Allora ragazzuoli miei, grazie per essere arrivati fino a qui, siete eroici. Ho sempre abbastanza ansia di risultare noiosa/patetica/troppo prolissa, quindi se avete critiche non siate timidi. Per il resto avete carta bianca nei commenti, adoro vedervi così attivi e partecipi, siete gli Spelacchiati migliori del mondo!
Con tantissimo affetto spelacchiato
Hasta la pasta!

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Ciance sparse: Tour e tette

Postilla: Io sono senza parole. Ammutolita dalla commozione.
Pensavo che l’ultimo post, “Storia della mia depressione”, sarebbe passato molto in sordina qui sul blog. Ne ero molto convinta, tanto che non ero particolarmente in ansia nel pubblicarlo perché non mi aspettavo riscontri.
E invece voi siete P A Z Z E S K I.
Ho davvero sentito la vostra vicinanza, e penso sia una cosa straordinaria. Non me l’aspettavo. Che spelacchiati che siete.
La seconda parte arriverà. Ci sto lavorando, ma ritornare a quel periodo un po’ mi turba, quindi devo tornarci a piccole dosi.

Buongiorno miei cari Spelacchiati, come state? Continuate a perdere ciuffetti di pelo? Spero di sì, voglio che vi spelacchiate sempre di più.
Oggi volevo condividere con voi la mia incredibile simpatia, la mia dirompente esilaranza, la mia mitica divertentaggine.
Ho comprato una cosa a Mr Batterista.
Un regalino.
Un pensierotto.
Una cosa per sopperire le mie mancanze.
Cosa gli ho preso?

Una tetta antistress.

Giuro.
E’ bellissima.
Potessi ne prenderei due e me le appiccicherei al petto, giusto per capire cosa si provi ad essere tettute.
Non vedo l’ora di dargliela -anche la tetta intendo… ba dum tss- secondo me mi lancia fuori dall’auto. Anzi, prima mette in moto (che poi “mettere in moto” una macchina non suona strano? “Metto in bici un monociclo” “metto in aereo il calesse”… va bene, la smetto) poi va su un rettilineo, accellera al massimo e solo allora mi lancia giù dall’auto.
Lo capirei, se lo facesse.

E ora passiamo alle note dolenti; quest’estate, Covid permettendo, Mr Batterista andrà in tour. Non si sa ancora di preciso quante date, ma non poche. In giro per l’Italia.
*Respira come un monaco tibetano*

Ho appreso la notizia con sorprendente calma, mi congratulo con me stessa.
Però chiedo a voi un consiglio, una domanda a risposta multipla.
Che faccio?

  1. Lo catapulto giù da una rampa di scale il giorno prima della partenza confidando che si rompa una gamba e che purtroppo sia costretto a letto per almeno vent’anni.
  2. Gli infilo un braccio in un torchio triturandoglielo, così voglio vedere come suona l’infingardo.
  3. Lo incateno nello sgabuzzino facendo perdere di lui ogni traccia.
  4. Compro tutti i biglietti di ogni data del tour, così che ci sia solo io ad assistere ad ogni concerto. 
  5. Mi do all’eroina per tutta la durata del tour.

Per ora queste sono le alternative tra cui mi dibatto e sbatto come una medusa trasportata da un nubifragio, ma sono aperta a ogni suggerimento e penso che più si avvicinerà la data della sua partenza più il mio cervelletto lavorerà freneticamente alla ricerca di soluzioni.

Da una parte penso che senza avermi intorno a ricordargli perché gli piaccio lui si scordi di me; dall’altra penso che non avermi intorno a ricordargli tutti i motivi per cui non dovrei piacergli ci farà bene.

In realtà, facendo la seria per trenta secondi, sono sconvolgentemente tranquilla all’idea che Mr Batterista prenda e stia lontando da migo per giorni e giorni, più mesi di fila. Forse sono ingenua fino allo stupido, ma non ho paura che mi tradisca. Non tanto perché “non mi ferirebbe mai così deliberatamente” (suppongo lo pensino tutti, e poi…) ma perché lui non è una persona così. Ha dei principi morali super saldi, un po’ come me.
Quello che mi spaventa a muerte e su cui non può tranquillizzarmi è che possa sviluppare dei sentimenti per qualcun’altra; suppongo che passando parecchio tempo con la crew sia abbastanza facile affezionarsi.
Se così fosse è qui entro in gioco io, che con una mossa di ju jitzu elimino la concorrenza sbucando dal mio nascondiglio nel doppiofondo della valigia di Mr Batterista.
UAAAA-TAAAAAH!
Colpo di taglio alla giugulare, rivale semi-muerta, grande vittoria, posso tornare a casa tranquilla: Mr Batterista, anche stavolta, è salvo dalle grinfie delle avvoltoie.

In ogni caso sento di fidarmi di lui come non pensavo sarei più riuscita a fidarmi di nessuno dopo numerose, bislacche vicessitudini (leggasi: fidanzati di amiche che ci hanno provato con me, padri di amici che ci hanno provato con me, storie orribili di tradimenti), eppure non c’è limite alla mia stupidità quindi… Mr Batterista, plis, non farmi andare sotto zero la fiducia nell’umanità.

Ora vado a vestirmi: Mr Batterista oggi mi presenta il suo migliore amico.
Sento che come minimo mi rovescerò la birra addosso, inciamperò da qualche parte sbattendo il muso, dirò cose inappropriate e probabilmente mi scaccolerò pure pensando di non essere vista.
E voi miei cari spelacchiati come state? Come passerete questo sabato pomeriggio? Se avete aneddoti di ogni tipo come sempre sono qui a leggervi tutti -e adoro vedere che interagite anche tra di voi, mi riempe il cuoricino spelacchiato- quindi avete carta bianchissima!
Hasta la pasta!

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La storia della mia depressione, parte 1

Buongiorno miei adorati Spelacchiati, come state?
Oggi vorrei fare un post diverso dal solito imbecille a cui vi sto abituando con la mia idiozia.
Oggi vorrei iniziare un racconto serio della mia depressione. Non so perché, forse sto cercando di capire come raccontarla a Mr Batterista, forse le sedute con la psicologa stanno andando bene e voglio guardare da dove sono partita. Forse spero che anche soltanto una persona leggendo queste righe possa sentirsi vagamente meno isolata.
Insomma regà, oggi peso. Vi chiedo già scusa, e se non avrete voglia di leggere avete tutta la mia spelacchiatissima comprensione.

Cominciamo?
Via.

Non so bene quando sia cominciata questa cosa. Questa sensazione spossante di stanchezza, di noia, di non voler far niente. Può essere che sia stata sempre così, fin da bambina, una specie di tratto caratteriale bislacco che poi si è evoluto in qualcosa di decisamente problematico.
Credo di aver cominciato ad avere un problema all’ultimo anno di liceo: ero sempre stata una studentessa bravissima -matematica a parte, facevo, faccio e farò per sempre cagare coi numeri- e all’improvviso ero svogliata e sbuffavo quando i professori mi chiamavano. Dormivo poco e male, prendevo voti più bassi e stavo spesso a casa.
Poi è iniziata l’università, io dormivo sempre peggio tanto da passare notti di fila insonni; una volta è venuta la guardia medica a darmi una specie di sedativo, non ricordo bene, perché avevo tremori incontrollabili e mi sembrava mi si stesse spaccando il cranietto dal mal di testa. Non dormivo da più di 50 ore.

Piangevo ovunque. Appena ero da sola scoppiavo in lacrime. Sul treno per tornare a casa, in bagno quando mi ci rifugiavo durante le cene, di notte nel mio letto. Con gli altri cercavo di dare una parvenza di normalità, anche se non ero più la persona solare di sempre.

Passano i mesi e gli anni, e io mi ripetevo che era una fase, un “momemento no”.
Solo che era molto peggio di un momento no.
Era come se tutte le emozioni positive le sentissi molto attenuate, come se a viverle fosse un’altra persona, mentre quelle negative mi travolgevano con intensità moltiplicata per dieci. Insomma, ‘nammerda.
Mi capitava quello che si chiama “depersonalizzazione” o “derealizzazione”: mi sentivo fuori dal mio corpo. Non ero io a vivere le situazioni, era come guardare un film. Un film tra l’altro particolarmente noioso, e io ero sempre sul punto di addormentarmi; mi sentivo in un limbo strano, molto distante da tutto.
“Ma queste persone stanno parlando con me? mi hanno chiesto qualcosa? Non mi ricordo cos’ho fatto dieci minuti fa. Dov’ero ieri a pranzo?”.
E’ una sensazione quasi inspiegabile a parole, me ne rendo conto.
Non ero più io, ero un fantoccio che si muoveva e respirava per inerzia.
Pensavo che avrei vissuto così per sempre, senza sentire niente se non angoscia e disperazione.
Credo che disperazione sia la parola che nei primi mesi ho usato più spesso durante le sedute con la psicologa.

In tutto ciò l’estate di quattro anni fa ho deciso di andare a fare una vacanza studio, un mese e mezzo in Germania. Volevo lasciare tutto indietro, pensavo che una scossa mi avrebbe aiutata. Sapete, tutta quella roba del “rimani in movimento bla bla bla”, ma vaffanculo. Volevo solo dormire tutto il giorno. Volevo stare sdraiata per terra a fissare il soffitto, ed effettivamente era quello che facevo la maggior parte del tempo.
Il viaggio in Germania comunque mi ha fatto peggio: lì ho avuto la prima crisi suicida vera e propria. Non ho provato a togliermi la vita, ma c’è stato un momento in cui l’idea è stata spaventosamente concreta, non più una vaga ipotesi che turbinava qua e là nel mio piccolo, chiaramente bacato cervelletto sottosviluppato.

La cosa più assurda della mia storia credo sia questa: la prima persona che si è accorta di come stavo è stata il professore del corso di tedesco lì a Friburgo.
Mi vedeva ogni giorno per quattro ore al giorno, pochissimo tempo rispetto ai miei amici e parenti, eppure dopo due settimane siamo andati tutti quanti a bere una birra in un posto con una vista spettacolare; ero in coda per prendermi una birra quando il professore mi ha fatto cenno di avvicinarmi.
Abbiamo parlato. Mi ha spiazzata. Con lui non avevo mai parlato di niente, soltanto le frasi esemplificative a lezione, eppure aveva captato qualcosa.
Dal nulla ci siamo isolati a un tavolo e mi ha raccontato con calma e intensità di come sua madre gli avesse salvato la vita trovandolo in piedi su una sedia con un cappio al collo. Aveva legato la corda a una trave della soffitta.
Mi ha detto che certi dolori li riconosci. E’ stato il primo -e forse l’unico, ora che ci penso- a dirmi che mi serviva una mano.
Sono tornata all’appartamento piangendo, e con la consapevolezza spaventosa di avere un problema.

Poi sono tornata in Italia, e qui ho conosciuto la persona che più mi ha fatto bene e male allo stesso tempo in quel periodo; ne avrò parlato un sacco qui sul blog, lo avevo soprannominato Il Pirla perchè lo amavo e lo odiavo contemporaneamente e lui se ne stava in balia delle mie emozioni senza fare nulla.
Non abbiamo mai avuto una storia, ma quello che avevamo era malsano, ora lo vedo. 

Lui era esattamente quello che cercavo inconsciamente: un continuo, costante ribadire che io non ero abbastanza.
Non a parole, quello mai.
Ma con lui sono stati mesi e mesi di “mi piaci tantissimo, ma non possiamo stare insieme” “vorrei davvero, ma è meglio di no”, che nella mia testa era un logorante, estenuante: non sei abbastanza. Abbastanza cosa? Abbastanza tutto. Qualunque aggettivo positivo potesse venirmi in mente, io non lo ero.
Non ero abbastanza: carismatica, intelligente, carina, atletica, interessante, amabile audace, intraprendente, divertente, attraente.

Non ero niente e non mi sentivo niente, e mi sembrava semplicemente ovvio che lui non mi desiderasse, che non volesse nemmeno provare a stare con me. Perché non ne valevo la pena. Tutt’ora ho questo pensiero: non ne valgo la pena. E’ abbastanza difficile convivere con questa convinzione, ma ci sto lavorando.
Insomma, lui era quello che mi serviva per rimanere a galla: era una boa nell’oceano in tempesta che era il mio cervelletto depresso; sapere che l’avrei visto il giorno dopo o nel weekend mi faceva andare avanti; ero impaziente all’idea di incontrarlo. Allo stesso tempo era la persona peggiore che potessi trovare, perché ha reso le mie insicurezze ancora più solide e più difficili da estirpare.

In realtà ci facevamo del male e del bene a vicenda.
Lui con me parlava di quante volte aveva pensato di impiccarsi in salotto, io gli confessavo di quella volta in cui ero stata sveglia tutta la notte pensando di tagliarmi le vene con il cotlello da cucina del mio coinquilino a Friburgo.

Non sapevamo come uscirne, però stare insieme ci faceva bene.
Con lui mi sentivo a posto, poi tornavo a casa e mi demolivo ogni volta di più.

Alla fine ho deciso di andare in terapia.
Credo che la prima telefonata, quella per prendere appuntamento per la prima seduta di psicoterapia, sia stata una delle più difficili della mia esistenza spelacchiata. Voleva dire arrendersi all’idea di avere un problema, cosa che io continuavo a negare a me stessa.

Non mi sentivo meritevole nemmeno di avere una malattia mentale.

Fine prima parte

Regà, che pesantezza eh?
Chiedo venia. Non so, oggi sono in modalità “flusso di coscienza palloso e melodrammatico”.
Non sono sicura di scrivere la seconda parte, forse non interessa a nessuno ed è un’agonia starmi a leggere quando scrivo cose serie, BOH! Se vi va ditemi la vostra.
Ovviamente mi farebbe piacere leggere i vostri commenti spelacchiati, di qualunque natura: sia cose serie sia cose imbecilli per tirarmi fuori da questo viale dei ricordi.
In ogni caso, vi attendo con impazienza.
Buona serata Spelacchiati miei, hasta la pasta!