“Tranquilli: sto bene.”
Lo dico spesso. Lo dico anche quando non è vero.
Lo dico soprattutto quando non è vero.
Vivere con una disabilità invisibile è una grande, costante rottura di palle.
Non c’è niente di poetico, niente di istruttivo. Non si impara un cazzo, però dopo un po’ sai distinguere un’aura da crisi da quella di un’emicrania. Se c’è una tempesta elettromagnetica hai più crisi. Superpoteri forniti in dotazione.
Diventi più forte? Non credo. Però hai le occhiaie.
Se rido: “Ma dai, allora stai bene!“
Se piango: “Dai su, devi reagire.“
Se parlo: “È che vuoi attenzioni.”
Se sto zitta: “Poverina, non ha superato il trauma.”
A un certo punto non sai più nemmeno tu chi sei.
Una persona malata? Una persona che finge? Una che esagera?
Una guerriera, una debole, una noiosa, un errore di valutazione? Meriti davvero l’invalidità? A lavoro sei la mascotte o sei utile? Dov’è il tuo valore, come si calcola?
Hai una crisi — ma niente convulsioni, quindi niente spettacolo.
Allora non è grave. Allora “pensa a chi sta peggio, tu sei già fortunata.”.
Allora devi distrarti.
Ma se ti distrai, stavi esagerando.
Se non ti distrai, sei troppo fragile.
Se stai in silenzio sei strana.
Se parli troppo sei pesante.
Ogni gesto è una performance sbagliata, ogni risposta è fuori tono.
Ti adatti? Sei un esempio.
Cedi? Sei un peso.
E allora impari a dire la frase magica:
“Tranquilli, sto bene.”
Così tutti possono proseguire la loro vita, traumatica sotto altri punti di vista.
Alla fine non sei mai la versione giusta di te stessa.
Cerchi di essere quella che infastidisce meno.
*
Non vi preoccupate, Spelacchiati, sto bene. Più o meno.
Sono giornate intense per il mio cervello, e mi sembra giusto mettervi al corrente dell’altra faccia della medaglia; sempre spelacchiata, ma non divertente.
I post scemi torneranno presto, appena la mia corteccia cerebrale si sarà stabilizzata.
Voi ragazzi come state? Cosa pensate davvero quando dite “sto bene”?
